STUDIO DANISI

La mediazione dei conflitti e la mediazione umanistica

LA MEDIAZIONE UMANISTICA DEI CONFLITTI

Ti è mai capitato di vivere un rapporto difficile con un’altra persona? Una relazione in cui, a un certo punto, non riesci più a parlare serenamente con l’altro, ti mette a disagio incontralo e anche se ti appelli a tutta la tua razionalità e invochi la parte più zen di te, vieni travolto da pensieri oscuri, voglia di vendetta o di urlargli in faccia quello che pensi davvero? Bene, questo è quello che potrebbe essere connotato come “conflitto” ed è, spesso, il momento in cui sentiamo di non riuscire a saltarci fuori da soli e dopo aver provato tante strade, averne parlato con amici e confidenti, avvertiamo il bisogno di essere aiutati da qualcuno esperto, esterno e riservato, che ci ti fuori da questo caos emotivo. Si, perché nel conflitto si provano tante emozioni e sentimenti faticosi da gestire (la rabbia, la tristezza, il timore, la frustrazione, il senso di solitudine e di impotenza, etc.) e ci sembra di essere sbattuti come un’onda su uno scoglio, senza riuscire a trovar pace. Stare in un conflitto vuol dire vivere una sofferenza da cui non vediamo l’ora di liberarci, anche quando esso assume i toni pacati di un silenzio ostile. Che fare? Le strade possono essere diverse, da quella legale (se sentiamo il bisogno di proteggerci e far valere i nostri diritti), alla psicoterapia, qualora vi sia una dinamica relazionale complessa e la posta in gioco sia alta. Meno conosciuta è la strada della mediazione, un cammino concreto e profondo, che può metterci in contatto con noi stessi e con l’altro, alle volte, anche in poco tempo.

Per questo desidero parlarne, per rendere noto che esiste una possibilità di affrontare i nostri conflitti familiari, sociali, lavorativi, che potrebbe fare emergere quello che ci portiamo dentro, senza distruggere noi stessi o l’altro.

È una possibilità antica, che è nata insieme al bisogno dell’uomo di vivere in comunità e alla capacità di trovare delle modalità di regolazione delle controversie, interne al sistema sociale di convivenza.

Ovviamente non è la panacea di tutti i mali e non è una strada sempre percorribile. Diciamo subito che:

  1. ci sono dei conflitti che non si possono o non si vogliono risolvere, che hanno trovato una sorta di equilibrio interno che può essere dannoso andare a toccare, e che richiederebbero l’intervento di esperti diversi, quale uno psicoterapeuta (bravo) o uno psicoanalista (bravissimo) e meglio ancora, un analista bioenergetico!
  2. Per trovare una soluzione, nel senso proprio dello sciogliersi delle tensioni, di lasciar andare, bisogna volerlo da entrambe le parti. Le relazioni si costruiscono e si disfano in due. È vero che spesso è una persona a proporre la mediazione e l’altro viene quasi “indotto” ad andarci, ma è fondamentale che pian piano si costruisca una motivazione di entrambi ad esserci e ad impegnarsi verso la ricerca di un nuovo equilibrio. Per “fare la pace” bisogna essere in due.
  3. Fare la pace, nella prospettiva della mediazione, vuol dire cercare un “nuovo equilibrio dinamico”, vale a dire l’equilibrio a cui si approda dopo aver messo a fuoco gli elementi di malessere, dopo averne parlato con l’altro ed aver raggiunto, insieme a lui/lei, un equilibrio sostenibile per entrambe le parti, quello che è concretamente possibile per le persone coinvolte.
  4. Diciamo anche che il conflitto, se vissuto entro certi termini, è qualcosa di sano, un campanello d’allarme che ci dice che ci sono bisogni, valori, interessi, che sono stati minati e che necessitano di attenzione ed è, anche, un importante meccanismo di autoaffermazione della persona. Nel malessere che viviamo nel rapporto con l’altro emergono, sia pure nel caos emotivo, delle parti di noi che necessitano di attenzione. Affrontare il conflitto vuol dire ascoltare queste parti e prendersi cura di sé stessi. Non basta, però, litigare per far emergere le parti sommerse di noi, ci vuole un lavoro che metta in chiaro quello che di noi e dell’altro rimane sul fondo e che vuole essere visto. E questo è, propriamente, il lavoro della mediazione: lasciar emergere le emozioni e provare a dar loro un nome e un posto dentro di noi, cercare i bisogni sottostanti, esprimere pensieri che si tengono nel cassetto della mente, confrontarsi sulle visioni della vita.
  5. Le cose, chiaramente, si fanno più complesse quando gli interessi in campo sono dati dalle organizzazioni (cooperative, aziende, organizzazioni politiche internazionali), perché in esse si intrecciano bisogni e interessi personali a quelli delle parti che costituiscono il sistema stesso, con i differenti pesi di potere che hanno all’interno di esso. Il punto è che tali sistemi sono costruiti dall’uomo e la posta in gioco è sempre l’essere umano. Il successo di un’organizzazione, persino di un’azienda, è dato dal benessere delle persone, dalla possibilità di esprimere il proprio potenziale cognitivo ed emotivo.

La mediazione dei conflitti è un processo di facilitazione della comunicazione tra due o più soggetti. Questa definizione aiuta a differenziare la mediazione, come pratica umanistica, da altre pratiche di gestione dei conflitti. La mediazione ha come obiettivo, l’apertura di un dialogo fra i soggetti che permetta loro di riconoscersi reciprocamente come persone, portatrici di bisogni, valori, punti di vista ed interessi specifici. Si possono negoziare degli accordi, ma questo non è l’obiettivo primario della mediazione umanistica. J. Morineau, madre fondatrice della Mediazione Umanistica, sostiene che le persone possono arrivare a definire degli accordi se si riconoscono prima come persone, al di là della maschera e del ruolo sociale. La mediazione punta all’incontro, nel quale, attraverso il supporto del mediatore, le persone riescono a parlare in maniera autentica, facendo emergere le parti nascoste di sé e che hanno attivato il conflitto (vale a dire i vissuti emotivi, i bisogni, i valori, le rappresentazioni mentali).

La mediazione supporta le persone nel prendersi cura di sé e della relazione con l’altro, assumendosi la responsabilità di tale relazione, dei comportamenti e delle conseguenze che hanno prodotto, nonché, della possibilità di cambiare. Prendersi la responsabilità del proprio pezzo di relazione e, dunque, di conflitto, allo stesso tempo, libera dal senso di colpa, dal peso totale degli avvenimenti e riattiva energie. Nel senso di colpa e nel vittimismo c’è immobilismo.  Rimanere chiusi nel ruolo di vittima non produce cambiamento e benessere, ma incatena alla dinamica di conflitto e produce malessere.

Nella mediazione ognuno può assumersi il suo pezzo di responsabilità. Naturalmente, non tutti arrivano ad assumersi a compiere questo processo e c’è chi preferisce spostare sull’altro “la colpa” e restare fermo nella dinamica del conflitto. C’è anche chi “vive bene nel conflitto”, nel senso che percepisce di avere un ruolo e preferisce essere riconosciuto nello scontro, piuttosto che non essere nessuno, essere invisibile.

Il concetto di responsabilità, per diventare un atteggiamento mentale e pratico delle persone in conflitto, richiede un duro lavoro da parte delle persone coinvolte nel conflitto, una vera e propria rivoluzione interna, nonché del mediatore che promuove e sostiene questo processo. Quando le mediazioni non vanno a buon fine, spesso, si vede come uno dei due o entrambe le persone, non sono riuscite ad operare questo cambiamento di prospettiva, ad assumersi la responsabilità del proprio pezzo, proiettando interamente sull’altro (e talvolta anche sul mediatore), la non riuscita della relazione (o della mediazione). Questo accade perché è un processo faticoso, mentalmente ed emotivamente, perché ci chiama in causa in prima persona: se non riesco a comunicare bene nella mia relazione di coppia o al lavoro, allora di sicuro la colpa è dell’altro che non mi capisce! Quante volte pensiamo questo? Quanto è difficile dirsi: e io dov’ero? Cosa ho fatto o non ho fatto per arrivare a questo? Cosa potrei fare ora? In mediazione, ad esempio?

Intrecciato al concetto di responsabilità, vi è quello del risultato dei percorsi di mediazione che dipende dalle parti, dalla voglia, dalla motivazione e dalle risorse che le persone hanno nel cercare un nuovo equilibrio. Se questa tensione manca, se ci si aspetta che il mediatore, miracolosamente, accenda una lampadina nella testa delle persone per farle cambiare, allora il percorso è minato in partenza. Il mediatore costruisce, insieme alle persone, il campo da gioco: aiuta a mettere in chiaro sentimenti, bisogni, idee, valori, supporta la riflessione e l’assunzione di responsabilità sui comportamenti agiti e sulle conseguenze generate, promuove la ricerca di ipotesi di cambiamento del processo di comunicazione, allena a tale cambiamento, come fosse un coach, valorizza i risultati raggiunti dalle persone, ma non si sostituisce mai ad esse nei processi decisionali. Tessa le fila e resta in attesa che le persone compiano il movimento, alle volte, un vero e proprio salto nel vuoto di una direzione comunicativa e relazionale nuova, che per questo, fa paura. Prima di scoprirne la bellezza, prima di assaporarne il calore. Il risultato della mediazione, dunque, dipende dalle parti.

Propongo, a questo punto, una possibile definizione più completa di cosa è la mediazione: la mediazione è un processo di facilitazione della comunicazione fra le persone, in cui attraverso il supporto di un terzo, esterno alla dinamica del conflitto e specificatamente formato, definito mediatore, le persone sono sostenute nell’espressione dei propri bisogni, emozioni e punti di vista e nell’ascolto di quelli dell’altro. Questo può portare a raggiungere dentro di sé e nella relazione con l’altro, un nuovo equilibrio.

Questo incontro potrebbe condurre, inoltre, ad un riconoscimento reciproco, alla formulazione di richieste specifiche e all’individuazione di accordi definiti dalle parti. Qualora le persone ravvedano la necessità di sancire legalmente i frutti del percorso di mediazione (ad esempio in una separazione), relativamente agli accordi presi, possono sostenerli attraverso le vie legali (a meno che non si siano rivolti ad avvocati-mediatori con i quali possano immediatamente sancire tali accordi).

Fanno parte della mediazione anche le consulenze individuali, che mirano a supportare, chi si sta vivendo un conflitto, nell’analisi della dinamica conflittuale e nella ricerca di un equilibrio sostenibile per sé stesso e con l’altro. In questa prospettiva, la mediazione è innanzitutto un incontro con sé stessi che si realizza attraverso il supporto del mediatore.

Negli incontri individuali, nella prospettiva della mediazione, il mediatore supporta la persona in tale ricerca avendo bene a mente che la persona ha una relazione con un’altra persona (coniuge, figlio, collega, vicino, etc), con la quale ha un conflitto, vale a dire, nell’ottica della mediazione, una forma di comunicazione inefficace, che non funziona e provoca malessere a una o entrambi le persone. Il mediatore non dimentica l’altro, anzi lo rende presente attraverso una poltrona vuota, in cui simbolicamente l’altro è sempre seduto. La mediazione lavora sempre nella relazione e per la relazione e, per questo, ha una visione sistemica. Essa considera tutti i soggetti della relazione conflittuale e quelli sui quali tale conflitti si allargano ed hanno conseguenze (per esempio, i figli). Non è un lavoro di potenziamento individuale a scapito di chi è a casa o da qualche altra parte. È un lavoro di crescita individuale e delle relazioni, di tessitura sistemica, in cui condividere idee e strumenti che le persone possano implementare anche dopo la mediazione, che è il momento più importante per le persone, il campo di azione della vita quotidiana. Le scelte che la persona farà, prima, durante e dopo gli incontri individuali di mediazione, dipendono da lei/lui. Il mediatore aiuta a ragionare anche sulle conseguenze per sé stessi e per gli altri, sospendendo giudizi, promuovendo responsabilità e azioni costruttive, anche nelle scelte più estreme (come quelle di chiudere un rapporto), contendendo le paure, aiutando a ricucire le ferite. Con amorevolezza, una qualità e una competenza che un mediatore umanistico non può non possedere. La mediazione non è appena un insieme di tecniche è un approccio alla vita fondato sull’amore per gli altri. Non è buonismo spicciolo, è un lavoro su di sé continuo, autentico, profondo, per predisporsi all’incontro con le persone in un momento delicato delle loro vite: i conflitti.

La mediazione promuove, laddove è possibile, l’incontro fra le persone, l’espressione autentica di sé e l’ascolto attento dell’altro. Questo dialogare (dia=fra e logos= pensiero e parola), questo scambiarsi i pensieri e la parola, guardandosi umanamente, accogliendosi reciprocamente, è la mediazione umanistica, nella proposta originaria della Morineau.

In questa metodologia assumono un ruolo fondamentale le tecniche di ascolto empatico e rispecchiamento, che permettono di connettersi con la sfera delle emozioni e dei bisogni dell’altro[1].

LA MEDIAZIONE UMANISTICA INTEGRATA

Rispetto all’impostazione classica della Mediazione Umanistica, nella mia pratica di mediazione, ho verificato e sviluppato alcuni elementi di riflessione che hanno integrato l’approccio umanistico, andando a costituire il mio metodo, quello della Mediazione Umanistica Integrata. Esso si è costruito validando sul campo le teorie, abbracciando quelle che hanno funzionato e tralasciando quelle che portavano poco aiuto alle persone. È un approccio teorico-metodologico sempre in divenire, che può e deve arricchirsi ancora di preziosi contributi.

Proviamo a delineare i principali elementi di integrazione attualmente condensati nel metodo:

  1. È vero che le principali emozioni sono universali ma il modo di esprimerle (espressioni del viso, postura del corpo, comportamenti agiti) è diverso per cultura e per esperienza personale. Il rapporto fra emozioni e comportamenti è anche culturale (oltre che biologico) e questa dimensione soggettiva e culturale va sempre interrogata, per evitare di cadere in generalizzazioni.
  2. La scala dei bisogni presentata da Maslow nel secolo scorso, costituisce un importante punto di partenza ma oggi ci sono bisogni sociali e individuali nuovi ed essi vanno specificati in base alla rappresentazione mentale di ogni persona. Ognuno di noi ha bisogno di essere amato, ma il modo di interpretare e realizzare quel bisogno è soggettivo e ha a che fare con la propria rappresentazione del mondo e con i propri valori. Qui la mediazione incrocia la Programmazione Neuro Linguistica (la dimensione rappresentativa della mappa).
  3. La Comunicazione Non Violenta ha offerto un importante contributo alla mediazione, oltre che nella struttura metodologica, anche focalizzandosi sulle richieste reciproche che possono esserci in mediazione rispetto ai comportamenti quale elemento modificabile e negoziabile.
  4. L’importanza di offrire alle persone uno spazio individuale, qualora ne emergesse la necessità, in cui sia più semplice fare emergere le proprie emozioni e i propri bisogni.

Rispetto a questo punto ci sono scuole di pensiero e metodologie diverse: c’è chi preferisce evitare gli incontri individuali, prima o durante il percorso di mediazione, per contenere il rischio di alleanze, triangolazioni e segreti. Come si potrebbe proseguire in una mediazione di coppia, qualora uno dei partner confessi di avere un’altra relazione, ma non vuole comunicarlo al proprio partner in mediazione? Come fa a gestire questa cosa il mediatore?

Sono situazioni scivolose, sperimentate in mediazione e che portano alcuni di noi a prediligere, oggi, il processo di mediazione, da subito, con entrambe le parti.

Nel secondo approccio, anch’esso sperimentato sul campo e che prevede incontri individuali, propedeutici alla mediazione o in fieri, ho verificato l’importanza di offrire uno spazio individuale in cui esplorare le proprie emozioni e bisogni. Questo facilita la presa di contatto con sé stessi e aiuta ad arrivare all’incontro con l’altro con un campo più pulito. Come faccio ad incontrare l’altro e a riconoscere i suoi bisogni se non ho avuto un momento in cui ho focalizzato e sentito riconosciuti i miei?

Come si può vedere sono valide entrambe gli approcci, per cui, come mediatrice, lascio aperta questa opzione metodologica ad una valutazione specifica.

  • In tanti casi, inoltre, l’incontro non è possibile o non desiderato e perciò si lavora individualmente con la persona attraverso la consulenza, aiutandola a prendere consapevolezza della dinamica che sta vivendo. Questo è un ulteriore elemento di riflessione che la pratica quotidiana della mediazione ha messo in evidenza. Cosa fare quando una persona non se la sente di incontrare l’altro (vicino di casa, marito, fratello, collega di lavoro)? Il lavoro di consulenza individuale, nell’ottica della mediazione, ha fatto emergere l’importanza di lavorare anche con una sola persona, supportandola nel focalizzare i propri comportamenti e nel vedere quello che c’è “dietro” di essi (emozioni, bisogni, pensieri, valori, mappe). La persona fa un percorso dentro di sé in cui arriva a comprendere come sta in quella relazione specifica (guardando ad episodi concreti e significativi). Focalizza anche i comportamenti dell’altro che l’hanno toccata. Questo offre uno strumento di lettura che permette di affrontare la relazione con l’altro nel proprio contesto di vita e di trovare un nuovo equilibrio, anche laddove non vi è stato l’incontro diretto in mediazione. Nella consulenza individuale, si lascia la poltrona vuota per l’altro e si rivolge lo sguardo anche verso il posto vuoto, per presentificare l’altro, per ricordare alla persona che sta vivendo un conflitto che c’è anche un’altra persona coinvolta nella dinamica. Ad un certo punto mi piace introdurre l’altro, lanciando il messaggio che c’è anche l’altra persona che ha emozioni, bisogni e punti di vista propri sulla relazione, anche se non li conosciamo. Serve a creare uno spazio per l’altro, dentro di sé.
  • La mediazione, anche quando si realizza nella consulenza individuale, si prende cura della relazione. La mediazione ha un approccio sistemico, cioè guarda alla persona nel suo sistema di riferimento, in cui c’è anche la persona con la quale vi è il conflitto.
  • Un altro elemento di riflessione, rispetto all’impostazione umanistica classica proposta dalla Morineau, è anch’essa nata dall’esperienza sul campo della mediazione sociale. Durante la pratica di mediazione territoriale, che prevede l’andare nel territorio di emersione del conflitto (condominio, parco, quartiere), come mediatrice, mi scontravo con il fatto che le persone in conflitto non volevano incontrarsi. É vero che se le persone si incontrano ad un livello profondo, la negoziazione degli accordi è facilitata, ma ci sono delle situazioni in cui questo non è possibile e si arriva esclusivamente alla negoziazione a distanza, in cui le parti lavorano col mediatore/negoziatore senza mai incontrarsi. Non tutte le persone, infatti, hanno la volontà o le risorse per incontrare l’altro. È meglio negoziare un accordo piuttosto che lasciare il conflitto aperto.
  • Le costellazioni familiari di Hellingher presentano un approccio sistemico che è, contemporaneamente, psicologico e spirituale, e che ho inserito in alcune mediazioni e consulenze, perché ho scoperto che è potentissimo.
  • Infine (solo per modo di dire, perché la mia ricerca teorico-metodologica non terminerà mai), ho iniziato ad integrare il prezioso contributo della bioenergetica di Lowen, il lavoro di sblocco delle emozioni attraverso il corpo. I conflitti ci accadono nel corpo, ne modificano la struttura. Il percorso di presa di consapevolezza del conflitto mediante la narrazione deve passare attraverso l’attivazione c la presa di contatto con il nostro corpo. Siamo una cosa sola.

[1] vedi pag 141 volume I “Mediazione e altri rimedi”